Sono tante le cose brutte nell’avere un corpo. È talmente vero che non ci sarebbe bisogno di esempi, ma citiamo solo brevemente il dolore, le ferite, i cattivi odori, la nausea, la vecchiaia, la gravità, la sepsi, la goffaggine, la malattia, i limiti, ogni singolo scisma tra i nostri desideri fisici e le nostre reali capacità. Qualcuno dubita che ci serva aiuto per riconciliarci? Che ne abbiamo un disperato bisogno? È il corpo che muore, in fin dei conti.
Certo, avere un corpo ha anche aspetti magnifici, è solo che coglierli e apprezzarli in tempo reale è molto più difficile. Al pari di certe rare epifanie parossistiche dei sensi (“come sono contento di avere gli occhi per vedere questo tramonto” eccetera) i grandi atleti sembrano catalizzare la nostra consapevolezza di quanto sia meraviglioso toccare e percepire, muoversi nello spazio, interagire con la materia. Vero è che gli atleti sanno fare con il corpo cose che il resto di noi può solo sognarsi. Ma sono sogni importanti: compensano molte cose.
[David Foster Wallace, «Roger Federer come esperienza religiosa»]
Adriano Leite Ribeiro è stato un centravanti dagli esordi allegri e fulminanti e dai finali tristi e frettolosi.
È stato, prima ancora, un bambino povero di Rio de Janeiro. Quando compie sette anni la famiglia fa una colletta e lo iscrive alla scuola calcio del Flamengo, dove lo inventano terzino sinistro. La leggenda vuole che dopo otto anni nelle giovanili Adriano non sia proprio Roberto Carlos e che, all’età di quindici anni, la squadra di Rio stia per scartarlo. Prima di mandarlo a casa, però, lʼallenatore delle giovanili del Flamengo ha una visione e decide di dargli un’opportunità da attaccante, scoprendo così che nessun difensore è in grado di tirarlo giù. Quel marcantonio di un terzino rinasce centravanti.
L’esordio nel calcio professionistico avviene nel 2000, ad appena diciotto anni, quando viene buttato in campo dall’ex commissario tecnico del Paraguay Carpegiani nel secondo tempo di una sfida di un certo blasone, con il San Paolo che conduce sul Flamengo per due reti a uno. Al primo lancio da centrocampo il ragazzone controlla al volo, scarta a sinistra per dribblare il difensore, si accentra un po’, accomoda la palla come meglio crede, lascia partire una scudisciata e infila il nazionale Rogério Ceni. Il telecronista urla: «Adriano! Que talento!». Il Flamengo segna poi altri tre gol nello stesso scontro, uno di questi su assist di Adriano.
A rendere mitologica – almeno in Italia – la narrazione di quel fantastico esordio, tuttavia, penserà lo stesso Adriano, che lo racconterà entusiasta ai giornalisti dopo la prima notte magica con l’Inter, appena un anno dopo: «entrai che perdevamo 1 a 0, in cinque minuti feci un gol e tre assist, alla fine il Flamengo vinse 5 a 2».
Fa simpatia e tenerezza, a ripensarci: mentre ingigantiva quel racconto, il diciannovenne Adriano non poteva immaginare che un giorno le immagini di quella partita sarebbero state disponibili su Youtube.
In quel racconto gonfiato qualcuno potrebbe forse intravedere il bambino che non si sente ancora un campione ma deve esserlo, per non deludere la sua famiglia, quella che ha pagato per farlo giocare nel Flamengo e che Adriano, con una cinquina secca alla lotteria del pallone, sta tirando fuori da Vila Cruzeiro – la favela degradata dove il calciatore è cresciuto, dove il padre s’è beccato una pallottola vagante che ne ha minato la salute, dove la fa da padrona il Comando Vermelho e dove nel 2002 sparirà e verrà ucciso Tim Lopes, giornalista che stava conducendo un’indagine sul narcotraffico.
Quella di Adriano, a guardar bene, è una storia come se ne sono scritte tante nei giornali sportivi – e, si dirà, sembra quasi che per diventare campioni del calcio occorra venir su da quelle tragedie lì.
Quel bambinone brasiliano con il piede potente e le spalle larghe, il sorriso bonario e gli occhi spauriti, quello sconosciuto che era apparso all’improvviso in un San Paolo-Flamengo e aveva fatto gridare «Que talento!» al telecronista, arriva all’Inter nell’estate del 2001 grazie a uno scambio con Marcos André Batista Santos detto Vampeta, centrocampista che in Italia non voleva più nessuno.
Vampeta aveva segnato il suo primo e unico gol con la maglietta della beneamata in occasione del suo esordio, durante la finale di Supercoppa Italiana tra Lazio e Inter del 2000. Presentato dal suo amico Ronaldo come «un giocatore veloce […] centrocampista con buone attitudini difensive ma nello stesso tempo capace anche di partecipare alla fase offensiva in modo lucido ed essenziale» – nonostante abbia vinto anche un mondiale nel 2002 – il futuro politicante Vampeta è ricordato in Italia principalmente per la sua pettinatura anni Trenta, per il baffo alla Clark Gable e per aver posato discinto per una rivista gay. Esistono due motivi più nobili, tuttavia, per i quali Vampeta dovrebbe essere ricordato: il primo motivo è rappresentato dal fatto che durante la sua permanenza a Milano rubò dalla cantina di Ronaldo – e scolò con un amico – una bottiglia di vino regalata da Giovanni Paolo II al Fenomeno; il secondo – il più importante e, appunto, già citato – è che la sua cessione al Flamengo durante l’estate successiva portò a Milano il giovanissimo centravanti Adriano Leite Ribeiro da Vila Cruzeiro (RJ).
Per tornare a Adriano, andiamo al 14 agosto 2001 a Madrid: la stagione è quella che si concluderà con il 5 maggio, Gresko, Poborsky e le lacrime di Ronaldo allo stadio Olimpico di Roma. Arrivato all’Inter da pochissimi giorni e buttato in campo da Cuper al posto del centravanti titolare Bobo Vieri, dopo pochi minuti dal suo ingresso nel gioco Adriano prende palla a centrocampo e parte per una gincana, la difesa madrilena carambola e infine lo acciuffa fallosamente al limite dell’area. Vuole tirare Seedorf, l’allenatore indica il giovane brasiliano che prende la rincorsa e fa partire una staffilata di robertocarlosiana memoria: rete! Visto il gesto in tv, il suo idolo convalescente Ronaldo lo chiamerà per fargli i complimenti – i due saranno compagni di squadra nel club solamente per un brevissimo periodo.
A Milano vivrà per anni sotto l’ala protettiva di sua nonna, della quale ha detto di recente: «Mia nonna ha sacrificato la sua vita perché io potessi diventare un calciatore. E poi, un giorno all’improvviso, il sogno stava quasi per finire!».
Di Adriano, in effetti, si parlerà parecchio negli anni successivi, prima delle sue giocate e dei suoi gol, poi della sua depressione, dei traguardi mancati, dei ricatti subiti, degli eccessi con cibo e alcol. La sua carriera si concluderà frettolosa e triste con appena 10 partite ufficiali tra il 2010 e il 2016 e qualche contratto stracciato. A un certo punto si spargerà in rete anche la falsa notizia di una sua presunta morte violenta.
Quello appena concluso, tuttavia, è stato un anno abbastanza felice per lui: suo figlio Adriano Carvalho Ribeiro ha firmato un contratto da calciatore con il Gremio, e l’Inter ha vinto lo scudetto trascinata da Romelu Lukaku, centravanti che gli somiglia tantissimo e che fin da piccolo aveva eletto Adriano a suo modello. Avevo letto da qualche parte che, infine, Adriano avrebbe scelto di tornare a vivere a Vila Cruzeiro, nella sua favela, tra i suoi amici forse poco raccomandabili, perché questo gli era parso l’unico luogo possibile per essere felice. Cerco su Google ma non trovo niente, magari l’ho sognato. Peccato: fosse una storia vera, questo sarebbe un degno lieto fine, allegro e fulminante come uno dei suoi esordi.
In ogni caso, Adriano oggi compie 40 anni, e qui gli abbiamo voluto bene e gli vogliamo bene parecchio. Buon compleanno, e tanti auguri di tanta felicità, imperatore.