Mi è capitato di vedere quel video straziante della separazione tra una bambina ucraina e il suo papà, probabilmente un addio tra quellʼuomo e la sua famiglia, che con un poʼ di fortuna raggiungerà lʼEuropa e sarà in salvo. Ho pensato che probabilmente il mio primo pensiero in una situazione del genere sarebbe lo stesso – mettere in salvo la mia bambina e sua madre –, ma anche a quanto sia terribile una separazione forzata, innaturale, violenta, dove agli uomini – a tutti gli individui di sesso maschile tra i 18 e i 60 anni, leggevo – non è concesso di lasciare il Paese ed è chiesto di combattere per la nazione, anche senza alcuna preparazione per utilizzare unʼarma o lanciare una molotov, magari senza alcuna propensione alla violenza e nessuno spirito patriottico. Per due anni abbiamo ascoltato tanti ripetere in buona fede quella fregnaccia che vorrebbe «una pandemia come una guerra», ma questa era ovviamente unʼaltra cosa, e credo che ora, con un conflitto bellico alle porte di casa nostra, sia chiaro anche a loro. Una guerra è unʼaltra cosa, credo io, un abuso di uomini su altri uomini, una restrizione innaturale della libertà, una costrizione alla sofferenza e alla violenza, al subirla e al perpetrarla, basata sulla volontà di potere di pochissimi, su convenzioni (i territori, i confini, le nazionalità, le alleanze, i regimi, gli inni, il denaro) decise da un centinaio di esseri umani su sei miliardi e accettate passivamente da tutti quei poveri cristi che non hanno altra scelta che subirne le conseguenze, far quel che si può, incrociare le dita. Attendere.