Con gli occhi di Franca
Nessuno ha mai creduto davvero che potesse piacermi ascoltare le storie raccontate da mio nonno.
Ho cominciato a collezionarle da bambino e, anno dopo anno, sono diventate sempre più ricche di particolari, controverse nelle loro dinamiche e consequenzialità, piccanti.
Oggi che mio nonno ha difficoltà nell’esprimersi, quelle storie fanno parte di un patrimonio simil-culturale che è mio orgoglio ed è stata mia dannazione: storie ascoltate o lette, immaginate o vissute, arricchite con particolari falsi e non richiesti, archivio di ricordi che può esistere solo con me e nessun altro.
Esiste davvero una necessità del racconto?
A guardar me sembrerebbe di sì.
Eppure tante volte quelle storie che mi sembrano fondamentali da raccontare risultano banali e noiose ai miei interlocutori.
Franca, a volte, si lascia scappare ridendo che “a trent’anni sei già come i vecchi di ottant’anni che raccontano sempre le stesse cose”: ed è vero, dio mio quanto è vero, sono una puntina su un vinile graffiato che salta a caso tra un solco e l’altro facendo gracchiare la musica ogni volta un po’ di più.
Sono giunto alla conclusione che al mondo non esistano infinite tipologie di esperienze e di vita ma, piuttosto, che parti di loro finiscano per mescolarsi in individui unici.
E’ impossibile, dunque, viverle tutte, ma è fin troppo facile conoscerle: l’esperienza umana cos’altro è se non una lunga sequela di luoghi comuni?
La differenza credo stia nel modo in cui questi cliché vengono raccontati e, dopo anni ed anni, mi rendo conto di non aver fatto altro che plagiare ciò che più mi sembrava geniale.
Circa la metà del tempo della mia vita l’ho passato ad ascoltare, leggere, osservare, immaginare, elaborare.
E a scrivere storie americane ambientate in Italia e in italiano (come se un americano scrivesse in inglese storie italiane ambientate in America, perché leggerle quando sono disponibili le originali? Che guazzabuglio sarebbe? Perché non me la sono mai posta prima questa domanda?)
E ad ogni mese che passa quel che ho scritto appena trenta giorni prima mi pare sempre così banale ed inutile, un racconto per niente necessario e non più rappresentativo di me stesso.
Devo fermarmi un attimo per non premere il tasto “canc”, far sparire ogni traccia digitale di me, ogni foglio di carta di cui potrei pentirmi per sempre se cadesse nelle mani sbagliate.
Per non farlo devo guardare il foro di Augusto con gli occhi di Franca in una sera d’autunno che io ho la vescica gonfia ma lei vuole stare lì ad osservare.
Come al solito, pesco dai ricordi: una volta a Firenze, da bambino, mio padre si appoggiò al Palazzo Vecchio e mi domandò “ti viene da immaginare che su questo muro si appoggiava anche Dante?”
Ora, io non so se sapessi all’epoca chi fosse Dante, se il palazzo fosse già stato costruito quando Dante ancora bazzicava Firenze, ma ricordo che iniziammo un gioco d’immaginazione, come se noi stessimo vivendo nel milleduecento, milletrecento, millequattrocento – quasi millecinque (cit.).
Non so se papà ricordi quel pomeriggio a Firenze, ma io ho continuato a fare questo gioco da solo ogni volta che mi sono trovato davanti qualche spazio di antichità.
Anche quella sera, davanti al foro di Augusto, immagino che ad una colonna rimasta sola nel centro del foro si appoggiasse un ragazzo più o meno della mia età, e chissà se lui avrebbe immaginato, all’epoca, che un giorno duemila anni dopo qualcuno sarebbe stato lì a guardarlo da una strada sopraelevata.
Mi viene da immaginare qualcuno che due millenni dopo di me sta a guardare dall’alto il balcone di camera mia, fantasticando su chi “avrà mai vissuto in quel bellissimo palazzo in muratura come non ne fanno più da secoli”.
Quel ragazzo appoggiato alla colonna, la barba incolta e la tunica, parla con un amico, osservano insieme una ragazza che passa e va a fare la spesa, magari ha la vescica gonfia come me e urina lì, al centro, senza pudore, cosa che io non posso fare. E quel ragazzo ha la mia età ed è già un vecchio, perché si muore presto nell’antica Roma, ed io invece sono poco più di un bambino, senza arte né parte, a farsi le pippe mentali sulla necessità del racconto. E probabilmente io nell’antica Roma non avrei raggiunto quell’età, sarei morto a due anni di pertosse.
E tutte queste cose le racconto a Franca e le chiedo “lo immagini mai?”
Le brillano gli occhi. Il suo gioco è più o meno lo stesso ma offre una prospettiva molto più ampia: e se fossero quelle mura, se fosse il foro di Augusto a muoversi intorno a noi? “Cammina”, mi dice, “guarda le colonne come si spostano”.
Ha ragione Franca, quel ragazzo dell’antica Roma non c’è già più, non ci siamo più neanche noi eppure è tutto così bello, così maestoso, colorato e, non so come dirlo meglio senza utilizzare aggettivi da vecchio trombone, musicale.
Se siamo solo statue di sale sempre pronte a sgretolarsi ed essere sostituite, mi dico, vale la pena vivere per noi stessi ed adesso, non perdermi dietro la necessità del racconto, il fuggire il luogo comune, la paura della banalità e dell’appropriazione indebita delle vite degli altri – ed altre amenità del genere.
Quelle di un racconto sono solo parole che forse moriranno con noi, o finiranno trascritte da me o da un perfetto sconosciuto in qualche cartellina impolverata o in un hard disk di cui un giorno si perderà il codice d’accesso, o magari tra duemila anni volteggeranno intorno ad una coppia di ragazzi innamorati fermi ad ammirare il palazzo in muratura del quadraro dove abito, proprio come hanno fatto con noi quella sera le colonne del foro di Augusto.
Franca mi ha salvato dalla pazzia.
Meno seghe mentali più bagni chimici sulla via dei Fori Imperiali, adesso è questo il mio nuovo motto.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=jgDzCDSLxOg]