Spulciando l’infinità di ricordi, scritti e interviste di Gianni Minà ho l’impressione che l’affetto verso questo grande giornalista, o almeno il mio, non derivi solamente dalla sua capacità di intervistare o dalla sua gran classe nel raccontare, dalle sue coraggiose avventure nellʼamata America Latina o dalle sue amicizie leggendarie, dal suo gusto o dalla sua attenzione al bello, ma piuttosto dal suo modo di approcciarsi agli altri, dallʼattenzione agli ultimi e alla sofferenza.
Minà ha detto del suo mestiere, in una intervista di sei anni fa a Fanpage: «Il giornalista mi deve raccontare quel che succede, non giudicare. Tu devi vedere, capire, interpretare e raccontarlo. L’aggressività assoluta del giornalismo moderno è un’aggressività cretina».
«Non giudicare»: è quello che credo abbia fatto fino all’ultimo nella sua attività, e in questo ho l’impressione che si sia differenziato enormemente dai venerati maestri appena più giovani; quelli che dal loro quarantennale pulpito, sempre lo stesso, ci hanno invitati a adeguarci al mondo che è cambiato, ad abituarci a un mercato del lavoro fluido e a fare qualsiasi mestiere, e quelli che da dietro a una tastiera si sono arrogati il diritto di irridere le manifestazioni di dolore delle nuove generazioni. Quelle generazioni alle quali, ha detto Minà in un’altra intervista recente al Corriere, è stato «tolto il gusto di sognare un loro futuro».
Credo, dicevo, che siano state la sua empatia, tanto vibrante da oltrepassare carta e schermo, e la sua attenzione al dolore e al futuro a renderlo tanto caro a lettori e ascoltatori, o almeno a me. L’ultimo scritto che ha pubblicato sul suo sito personale s’intitola «Pace» e risale a più o meno un anno fa, a qualche settimana dopo l’inizio della guerra russo-ucraina; un pezzo nel quale lamentava una certa nausea per il modo in cui il giornalismo stava, e sta, trattando quel conflitto («per sapere qualcosa di serio e vero sui conflitti e sul mondo, ormai ascolto quasi solamente Radio Vaticana») e rivendicava un diritto al pacifismo, l’importanza del pacifismo e del “prendersi cura”: «Un antropologo ha detto che l’inizio della civiltà è iniziata da un femore guarito. Nell’era preistorica, animale o uomo, quando si ferivano, la loro vita era condannata. Non potevano scappare. Un femore guarito è stata la prova che qualcuno si è preso cura del ferito, lo ha protetto e lo ha curato. Questa regola vale ancora oggi: nessuno si salva da solo».
Ecco, penso che attraverso il suo mestiere Gianni Minà abbia provato costantemente a dare attenzione, a prendersi cura degli altri, e che lo abbia fatto anche rischiando, con gioia e coraggio, e per me è stata una lezione umana e politica.