Antonio Coletta Autore, ufficio stampa, redattore editoriale

Gianni Minà

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Spulciando l’infinità di ricordi, scritti e interviste di Gianni Minà ho l’impressione che l’affetto verso questo grande giornalista, o almeno il mio, non derivi solamente dalla sua capacità di intervistare o dalla sua gran classe nel raccontare, dalle sue coraggiose avventure nellʼamata America Latina o dalle sue amicizie leggendarie, dal suo gusto o dalla sua attenzione al bello, ma piuttosto dal suo modo di approcciarsi agli altri, dallʼattenzione agli ultimi e alla sofferenza.

Minà ha detto del suo mestiere, in una intervista di sei anni fa a Fanpage: «Il giornalista mi deve raccontare quel che succede, non giudicare. Tu devi vedere, capire, interpretare e raccontarlo. L’aggressività assoluta del giornalismo moderno è un’aggressività cretina».

«Non giudicare»: è quello che credo abbia fatto fino all’ultimo nella sua attività, e in questo ho l’impressione che si sia differenziato enormemente dai venerati maestri appena più giovani; quelli che dal loro quarantennale pulpito, sempre lo stesso, ci hanno invitati a adeguarci al mondo che è cambiato, ad abituarci a un mercato del lavoro fluido e a fare qualsiasi mestiere, e quelli che da dietro a una tastiera si sono arrogati il diritto di irridere le manifestazioni di dolore delle nuove generazioni. Quelle generazioni alle quali, ha detto Minà in un’altra intervista recente al Corriere, è stato «tolto il gusto di sognare un loro futuro».

Credo, dicevo, che siano state la sua empatia, tanto vibrante da oltrepassare carta e schermo, e la sua attenzione al dolore e al futuro a renderlo tanto caro a lettori e ascoltatori, o almeno a me. L’ultimo scritto che ha pubblicato sul suo sito personale s’intitola «Pace» e risale a più o meno un anno fa, a qualche settimana dopo l’inizio della guerra russo-ucraina; un pezzo nel quale lamentava una certa nausea per il modo in cui il giornalismo stava, e sta, trattando quel conflitto («per sapere qualcosa di serio e vero sui conflitti e sul mondo, ormai ascolto quasi solamente Radio Vaticana») e rivendicava un diritto al pacifismo, l’importanza del pacifismo e del “prendersi cura”: «Un antropologo ha detto che l’inizio della civiltà è iniziata da un femore guarito. Nell’era preistorica, animale o uomo, quando si ferivano, la loro vita era condannata. Non potevano scappare. Un femore guarito è stata la prova che qualcuno si è preso cura del ferito, lo ha protetto e lo ha curato. Questa regola vale ancora oggi: nessuno si salva da solo».

Ecco, penso che attraverso il suo mestiere Gianni Minà abbia provato costantemente a dare attenzione, a prendersi cura degli altri, e che lo abbia fatto anche rischiando, con gioia e coraggio, e per me è stata una lezione umana e politica.

A proposito dell'autore

Antonio Coletta

Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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Antonio Coletta è autore, ufficio stampa e redattore editoriale freelance. Ha fondato numerosi blog e strambe webzine e collaborato con molte testate e troppi siti internet. Ha raccontato la sua fallimentare esperienza di addetto stampa del cantautore Calcutta in «Calcutta. Amatevi in disparte» (Arcana, 2018), pubblicato la raccolta di racconti «Mia madre astronauta» (Ultra, 2019) e partecipato all'antologia «Qui giace un poeta» (Jimenez, 2020) con un racconto su Roberto Bolaño.

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