Tra le tante castronerie di Giorgia Meloni trova spazio anche lʼidea di replicare un fantomatico “modello-Islanda” (poco più di 360mila abitanti) in Italia (quasi 60 milioni di abitanti) per combattere quel calderone di disagi che lei chiama “devianze giovanili”. La ricetta islandese, dice Meloni, è «lo sport».
Sostiene Meloni che «investire sul “diritto allo sport” significa investire sul futuro, coltivare i talenti, combattere le droghe, crescere le nuove generazioni di italiani cariche di quei valori che solo lo sport può offrire e trasmettere», strizzando lʼocchio allʼ«educare virilmente gli italiani al culto delle discipline fisiche» di mussoliniana memoria e a tutti quei buzzurri che sognano di trasformare il figlio mediocre pedatore in ricco calciatore professionista.
A me, sinceramente, pare che il cosiddetto “diritto allo sport” sia lʼunico diritto che ai giovani italiani non è quasi mai stato negato. Quali siano i valori dello sport che combattono le droghe di cui parla Meloni non mi è ben chiaro, e nemmeno perché le due cose (sport e droga) dovrebbero essere alternative. Il tutto si riduce, come sempre in questo Paese, a soluzioni semplici per problemi complessi, vizio aggravato dal fatto che un aspirante presidente del consiglio non dovrebbe preoccuparsi tanto di «quanti nuovi Francesco Totti, quanti piccoli Yuri Chechi, quanti fratelli Abbagnale ci siamo persi in questi anni semplicemente perché non abbiamo dato loro la possibilità di fare sport?» ma piuttosto, chessò, di quanti potenziali medici abbiamo perso in questi anni in Italia, se la regione Calabria deve importarne dalla benemerita Cuba.
Catalanamente, lʼattività fisica fa bene e la droga fa male: chi può sostenere il contrario? Personalmente, però, continuo a ritenere più sano, per quanto doloroso, provare a comprendere la società nella quale ci muoviamo e «deviare» malamente piuttosto che arrivare in salute al gran finale senza aver sviluppato alcuna capacità di analisi critica della nostra vita e del mondo che abbiamo attorno.