Pochi giorni fa è stata emessa la sentenza per l’omicidio Morganti, un fatto di cronaca nera avvenuto due anni fa – e a pochi passi da casa mia, ad Alatri (FR) – che ebbe notevole risalto nei media nazionali: un ragazzo fu ucciso da alcuni balordi (tre, secondo la sentenza) che lo picchiarono tanto da ucciderlo.
Gli assassini sono stati condannati a sedici anni di carcere per omicidio preterintenzionale e non per omicidio volontario come richiesto dalla famiglia e dall’accusa.
Ieri, invece, i giornali hanno pubblicato una foto di uno dei due ragazzi accusati dell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega, vessato in caserma quasi a mo’ di vendetta. Sono modalità di lavoro animalesche delle quali pensavamo di esserci liberati dopo Cucchi e Aldovrandi, invece siamo ancora lì.
Per entrambi i fatti leggo tantissimi commenti indignati, quelli di chi vorrebbe “chiudere la cella e buttare la chiave” per i tre balordi di Alatri (FR) e quelli di chi si domanda – persino in un partito di governo – se non fosse legittimo molestare un uomo che ha confessato un delitto tanto grave.
La difesa dell’integrità dell’uomo sottoposto a fermo, quella del condannato, la differenziazione delle pene per l’omicidio a seconda della condotta che lo ha causato – e più in generale il rifiuto della violenza, lo stato di diritto, la pena come percorso di riabilitazione e reinserimento in società del criminale – cozzano evidentemente con la legittima emotività dei parenti delle vittime e con l’empatia degli spettatori.
E tuttavia sono forme di tutela per tutti noi, persino per quelli che (ipotesi astratta) possono aver tentato di vendere il proprio Paese a una potenza straniera.
È ciò che ci differenzia dalle società che tutti riteniamo “più arretrate”, dagli uomini dei secoli scorsi e, più in generale, dai branchi di lupi.