Ieri sono intervenuto in uno di quei pazzeschi gruppi che raccolgono gli utenti Facebook di un determinato comune.
Lʼoccasione mi è stata data da un post di un mio concittadino che si lamentava (in soldoni) del fatto che nelle sere dʼestate la piazza principale di Alatri (FR) sia piena di bambini che giocano a pallone, vanno in bicicletta o sui monopattini, corrono urlando senza rispetto per la sacralità del luogo e per chi vuole amabilmente chiacchierare – io ho risposto che francamente mi pare positivo che in un luogo del genere tanti bambini trovino ancora lo spirito per giocare tra loro e divertirsi invece di passare le serate ad anestetizzarsi dalla noia fumando crack.
È una piccola polemica locale, ovviamente, tanto assurda negli sviluppi che mi ha divertito molto partecipare al gioco. Credo però che le centinaia di reazioni che ne sono seguite diano più di qualche spunto di riflessione.
Il sottotesto del post e dei tanti commenti era, secondo me, lo scontro tra generazioni («ai nostri tempi non era così» eccetera eccetera) e la domanda: quanto spazio siamo disposti a concedere ai bambini? Ovvero, chi sono i legittimi «proprietari» della piazza principale del paese – e, più in generale, del territorio?
Non credo sia una quisquilia, ma una piccolissima parte di uno scontro generazionale che invade più o meno tutto in questo Paese, che va molto oltre la piccola cittadina nella quale risiedo.
Quanto spazio ogni generazione è disposta a lasciare a quella successiva? Lʼimpressione è che le possibilità concesse dai più anziani ai più giovani si restringano generazione dopo generazione.
Sarebbe necessario un nuovo patto sociale in questo Paese, una maggiore disponibilità e generosità verso i più giovani. Lʼimbuto si restringe sempre più, generazione dopo generazione, in nome dei diritti acquisiti, del capitale accumulato, dei pochi o tanti privilegi ai quali non vogliamo rinunciare – qui dove, per fortuna, la morte arriva ormai spesso tardi e non rimette in capo a nuovi soggetti gli spazi, il capitale, i posti di lavoro. I «migliori» ce la fanno sempre, intendiamoci – il problema è che la stragrande maggioranza non lo sono e non lo saranno.
Qualche settimana fa ho ascoltato in televisione un più o meno settantenne, noto giornalista di un grande quotidiano, invitare i giovani ad adeguare le loro aspettative sul futuro al nuovo sistema liquido del lavoro, grazie al quale saranno costretti a cambiare occupazione e mansioni più e più volte nella vita – per dirla con le parole giuste, «a sopravvivere».
Grazie a questo preconizzato nuovo sistema liquido del lavoro, inoltre, al netto della mediocrità di ogni pretendente, mi pare difficile che un under 50 occuperà mai la posizione del più o meno settantenne che per tutta la vita lavorativa è stato un noto giornalista di un grande quotidiano, percependo lo stesso salario.
L’impressione generale è che in ogni settore – se non si ha la fortuna di essere «bravi davvero» o di rientrare nellʼunica categoria ancora sindacalizzata in Italia (quella dei dipendenti pubblici o semi-pubblici) – un under 50 difficilmente potrà ricoprire nel prossimo futuro posizioni lavorative con garanzie decenti: sia perché queste sono per lo più occupate da persone che, in un Paese normale, sarebbero in pensione, sia perché l’imprenditore non ha alcuna necessità di offrire compensi elevati e diminuire il suo profitto – con una tale offerta di lavoro (pseudo)qualificato, in assenza di sindacati e solidarietà tra lavoratori, si troverà sempre qualcuno a lavorare di più e a un costo minore (o, a volte, persino gratis).
Anche i piccoli e nuovi imprenditori, però, non se la passano bene – esiste una minima disponibilità da parte dei grandi e vecchi imprenditori e delle banche a lasciare loro un po’ di spazio? Tra loro, poi, c’è chi se la passa spesso malissimo: il lavoratore autonomo, per esempio, è spesso considerato un mendicante, costretto a svendere l’opera e a inseguire il cliente per vedersi riconosciuto un compenso di due soldi.
Molti di quelli che vivono nel mercato del lavoro attuale sanno che chi non è abbastanza fortunato o «bravo davvero» – o un dipendente pubblico o semi-pubblico sindacalizzato o un più o meno settantenne che per tutta la vita lavorativa è stato un noto giornalista di un grande quotidiano – sarà spesso obbligato alla prostituzione intellettuale e/o a rinunciare alle proprie ambizioni e/o a scendere a patti col diavolo per sopravvivere con redditi medio-bassi-bassissimi e/o a orari di lavoro e richieste improbabili e/o a una stanchezza fisica e psicologica che fa venir meno persino la voglia di chiedere all’altro «Come stai?».
Certo, le circostanze non sono favorevoli ma, ecco, insomma, lasciamoli almeno divertire i bambini prima che il capitalismo freghi anche loro.