Ho sentito parlare alla tivvù di un film-documentario dedicato a Marco Pantani intitolato «Il migliore», che viene proiettato in questi giorni nei cinema italiani.
Non lo vedrò, non tanto perché andare al cinema in questa vita pare ormai un miraggio ma, soprattutto, perché dalla sua morte provo un certo fastidio per il ciclismo contemporaneo, per quella sua dimensione epica, a volte anche eroicamente tragica, degna di essere cantata e raccontata dai migliori, poi risolta nei primi anni di questo secolo in tanti poveri drammi della solitudine, tra loro differenti, che hanno portato via uno dopo l’altro alcuni tra i suoi grandi ultimi interpreti – Jimenez, Pantani, Vandenbroucke.
In quelle terribili storie si specchia, nella mia memoria, la solitudine – dall’esito fortunatamente meno drammatico – di Andrea Tafi, che sale addolorato il Gran Sasso tra la neve, in una tappa piovosa del giro d’Italia, con la maglia tricolore del campione nazionale, isolato, insultato e minacciato dal gruppo per non aver aderito alle proteste contro l’intensificazione dei controlli antidoping.
Forse Pantani non sarebbe scivolato incolpevolmente via dal mio cuore di tifoso se gli avessero strappato di dosso il marchio divino del «migliore», se almeno con la morte gli fosse stata restituita l’immagine pubblica e la dignità dell’uomo fragile, quella dello sportivo fallibile che tutti abbiamo conosciuto e idealmente abbracciato nel 2000 sul Mont Ventoux, quella che dovrebbe essere riconosciuta – in fin dei conti – a ognuno degli ultimi, gli umani con le ruote un po’ a terra.