Per quanto sappia ancora ben distinguere la differenza tra aggressore e aggredito, e scegliere ancor bene di stare dalla parte di chi subisce e perde, non mi esalta la retorica sulla resistenza ucraina né, soprattutto, la costrizione imposta agli uomini di sesso maschile tra i 18 e i 60 anni di non espatriare per dare il loro contributo alla difesa della patria.
Mi ricorda una storia antica che mi raccontava mio nonno, quella di quando il regime fascista decise che, con lʼingresso in guerra, lʼItalia avrebbe dovuto dotarsi di un battaglione di paracadutisti, e che perciò selezionarono lui e altre centinaia di ragazzi di altezza superiore ai 180 cm, li portarono a Civitavecchia e li fecero lanciare sotto lo sguardo vigile del duce, dopo aver ricevuto alcune istruzioni sommarie sul funzionamento del paracadute. Così impreparati al lancio, in condizioni atmosferiche non ottimali, ne morirono tantissimi. I sopravvissuti furono premiati con una spilletta appuntata sul bavero da Mussolini in persona e un biglietto per El-Alamein. Anche allora non vi era stata possibilità di scelta – ma del resto quei ragazzi, e soprattutto le persone meno colte, non avevano conosciuto altre possibilità se non quelle dellʼobbedienza alla patria e al duce.
Un secolo dopo, in Ucraina assistiamo a uno scenario simile, nel quale agli uomini non viene data possibilità di scelta se non quella di provare a sfuggire a un massacro, pur consapevoli che al di là del confine esiste ancora la possibilità di una vita complicata ma pacifica e che la diplomazia non ha fatto nulla per evitare questa carneficina.
Personalmente ho sempre sentito vuote parole come «patria», «confini», «radici territoriali», «onore», «indipendentismo», e non ho dubbi che se lʼItalia – questa Italia – fosse sotto attacco cercherei per me e per le mie persone più care un luogo migliore nel quale vivere, piuttosto che rischiare di uccidere qualche poveraccio o finire ucciso. Eppure non funziona così, perché mi rendo conto che per moltissimi queste sono ancora parole piene e che – pur nella paura comune a tutti – il sentimento di comunità nazionale accomuna ancora la maggior parte delle persone che popolano questa Terra (almeno finché un conflitto bellico e il rischio di perdere la vita non li tocchi personalmente).
Tra gli ultimi atti da leader di Gorbachev, che non è stato un grande stratega politico ma aveva intuito gli immensi limiti del sistema dellʼUrss, della violenza e della repressione militare, cʼerano in campo le proposte di smantellamento degli arsenali nucleari entro la fine del XX secolo e la creazione di unʼEuropa comune nella quale la Russia avrebbe trovato il suo posto: «Non ci si può sentire sicuri in un mondo dove è possibile ridurre gli arsenali militari ma dove, nello stesso tempo, si violano i diritti dell’uomo. A questa conclusione noi siamo giunti una volta per tutte. La casa comune dovrà essere ammobiliata non solo da nuove regole rispettate da ciascuno, ma da solide fondamenta giuridiche per tutti, da uno spazio giuridico europeo». Gorbachev non era probabilmente lʼuomo adatto per guidare un processo del genere – e nessuno dei grandi paesi occidentali europei né il reazionario papa del tempo avevano interesse che ciò accadesse –, e di più lo stesso ultimo leader sovietico tornò alla repressione militare quando si accorse che non stava andando in fumo solo il suo disegno lungimirante, ma anche il suo potere.
Eppure quella del disarmo e della «casa comune europea» mi sembra ancora lʼunica strada possibile per evitare, almeno in questa parte di mondo, disastri come quelli che si stanno consumando in Ucraina, e lʼunica ipotesi della quale nessun leader politico occidentale pare occuparsi.