In un appartamento buio di Parigi in una mezzanotte piovosa alla fine degli anni cinquanta, una donna e un suo spasimante ascoltano musica mentre il piccolo figlio della prima dorme febbricitante in un angolo. L’ascolto della musica é interrotto dalle proteste del vecchio del piano di sopra infastidito dal rumore e dall’arrivo dell’amante della donna, zuppo da capo a piè per il temporale in corso. Nel frattempo il bambino muore e la casa si riempie di amici – una coppia venuta a portare la notizia del tentato suicidio di uno del club, un altro che annuncia che l’aspirante suicida è salvo e ancora vivo. La tragedia sembra essere fuori ma è avvenuta lì, in quell’appartamento di Parigi, e la conoscono man mano tutti i presenti men che la madre del bambino ormai assente. Restano tutti lì a conversare tacendo quel che è accaduto a pochi metri da loro, preparando in qualche modo la madre a quel che è già avvenuto, rimandando il più possibile lo strazio della donna nella scoperta del corpicino senza vita.
È, in sommissimi capi, il riassunto del capitolo 28 di “Rayuela” di Julio Cortázar, teso e avvolgente come poche cose ho letto in vita mia.
La connessione è forse labile, ma l’ho ricordato ieri, mentre un’irrazionale ansia per la sindrome influenzale da coronavirus, o meglio per la morte in quanto fatto incontrollabile della vita, invadeva tutti i nostri spazi e pensieri attraverso i titoli urlati dei notiziari e le ricostruzioni senza fondamento dei nostri amici virtuali.
“Il panico ci uccide ancora in vita”, penso mentre faccio a cazzotti con la mia irrazionalità: noi occidentali dell’ultimo mezzo secolo, per la maggior parte, siamo stati abituati a non pensare alla morte o a pensarla come un fatto lontano o, comunque, di domani, e di virus e medicina – per quanto mi sforzi – non capisco nulla.
Ora che l’ansia della nostra incertezza e ignoranza ci fa trovare tutti nudi possiamo affidarci solo alla scienza e alle sue indicazioni e continuare a vivere come se sempre ci fosse un domani, ignorando il chiacchiericcio popolare, i caratteri giganti e gli odori della paura fatta di niente, che girano nell’aria e ci avvolgono, per rimandare l’angoscia e la fine sempre almeno un’ora più in là.
Nel frattempo, per precauzione, ho incollato una calamita con il volto di Burioni sul cruscotto della mia automobile che mi ricorda di lavarmi le mani molto spesso e non frequentare luoghi affollati.