Più leggo, ascolto e osservo, più vivo e più ho lʼimpressione che le nostre esperienze di uomini occidentali – dove non insistono povertà, malattia e degrado – siano tutte estremamente simili tra loro e che le poche immense differenze tra noi stiano nellʼempatia per il prossimo e nella formazione, nel pudore, nelle sfumature dei sentimenti che riusciamo a cogliere, nella capacità di mettere assieme i tasselli delle storie, nellʼefficacia dellʼalcol, delle droghe, degli ansiolitici e degli antidepressivi, soprattutto nelle parole che troviamo per raccontare e affrontare le vicende della vita, nella capacità di utilizzare lʼarte per tratteggiare una disordinata storia comune.
Sì, mi pare che si trovi nel linguaggio la differenza enorme, quasi di specie, tra noi esseri umani, e che nel numero di parole che conosciamo e, soprattutto, nel modo in cui sappiamo utilizzarle stia anche il livello di profondità del rapporto che riusciamo ad avere con noi stessi e con il nostro sconosciuto prossimo, fin dove riusciamo a esplorare i nostri sentimenti e in quale modo sappiamo renderli intellegibili agli altri, e rispettarli.
Il sentimento del lutto che Joan Didion esplora quando perde marito e figlia non è per nulla differente dal mio o da quello di qualsiasi altro bifolco di fronte allʼabbandono di persone amate, eppure in qualche modo si crea una barriera insormontabile tra lʼeleganza e lʼacume col quale lei pone su pagina il problema dellʼautocommiserazione e dellʼelaborazione della perdita e la nostra, fatta di applausi alla tumulazione del feretro e dichiarazioni dʼamore urlate e spesso tardive.
Cʼè poi davvero differenza tra lo struggimento per lʼamore perduto che ha provato Leonard Cohen nella sua separazione da Marianne e quello del corteggiatore rifiutato di Uomini e donne? Non credo.
In una strofa poi espunta dalla versione definitiva di So long, Marianne, però, il cantautore canadese cantava:
If you leave where will I keep you then?
In my heart, as some men say?
And I, who was born to love everyone,
Why should I keep you so far away?
Sono versi espliciti, sentimenti persino troppo banali, alla portata di chiunque, quattro gradini sulla scala del dolore che però credo nessun altro sia in grado di percorrere in quel modo, e che in pochissimi siano in grado di mettere su carta – e, in questo caso, in voce – la distanza tra il luogo comune e il sentimento, e di esplorarla, qui per concludere un amore con amore.
Eppure mi pare che sia solo la conoscenza delle parole, la capacità di utilizzarle o accoglierle, a permettere ad alcuni di salire quegli scalini e di mettersi a nudo nelle loro debolezze, nei loro errori e nei loro difetti, di fare i conti con questo gran casino dellʼesistenza, con il cuore affollato, con la distanza, con lo scegliere da che parte stare, con chi vince o con chi perde, a fare la differenza tra chi sogna un Suv e chi si commuove per una poesia, tra chi non lo sa e chi sa – o almeno spera – che di questa nostra disordinata storia comune di fortunati uomini occidentali dellʼultimo secolo non resterà nulla, non il sushi all-you-can-eat, non il contapassi di Decathlon, non lo striscione di incoraggiamento al malato di cancro calato sulla facciata di un ospedale, non la dedizione al lavoro, non la casa di proprietà, nessun torto e nessun pettegolezzo. Magari permarrà solo la grande bugia delle parole di quei pochissimi che sapevano esprimersi attraverso lʼarte e che dipingeranno anche noi ombre, in un complesso informe, come esseri umani migliori di quel che siamo stati davvero. O, forse, neppure quella.
Mi hai fatto molto pensare