Ieri pomeriggio a Roma cʼè stato un breve momento primaverile quando i ragazzi e le ragazze dellʼuniversità mi sono passati tutti attorno mentre camminavo, e devo dire di averli riconosciuti solamente perché fiumavano via dagli stessi luoghi che frequentavo io a ventʼanni, perché io ne avrei attribuiti loro quindici o poco meno, con la loro acne e i loro corpi da adolescenti; eppure io a ventʼanni ero più vecchio di loro, ho ancora vent’anni, o forse non lo ricordo e mi accorgo che quel tempo, ventʼanni, è più prossimo a quello di mia figlia che al mio; e poi è tornato lʼinverno, dʼimprovviso, mentre ero in metropolitana, ed è sfumato un poʼ verso sera, prima di andare via, e ho pensato che dai miei ventʼanni ne sono passati altri venti e ho vissuto un poʼ di tutto – e però fortunatamente non sono diventato orfano e non ho affrontato la malattia e la morte (e finché non muori, mi ha detto un amico defunto in sogno, non puoi dire di aver vissuto pienamente) –, ne sono passati altri venti, dicevo, e forse non ho più lo sguardo sognante e innamorato dei ragazzi che fiumano dallʼuniversità nelle sere di primavera però ho ancora lʼillusione di avere mille possibilità davanti a me, di non essere costretto in riti di passaggio programmati, di poter fare qualcosa di bello o di importante, di avere vent’anni per sempre, o magari trenta, ancor meglio, anche senza capelli, con la barba bianca e lo stomaco prominente, di poter inventare un verbo che non esiste, che fiumi via; magari è questa la testimonianza che lascerò alla mia bambina assieme al premio della mia assicurazione sulla vita, spero le servano a qualcosa.
Alcuni la chiamano demenza senile.