Edizioni Gallinard, 2019
originale in lingua francese di Antonio Coletta
traduzione in lingua italiana dell’esimio Professor J.S. Cianfrocca
1. PREMESSA
Alla mia età:
– Giulio Andreotti era stato già sei volte segretario del Consiglio dei Ministri e, in un’occasione, Ministro dell’Interno;
– David Foster Wallace pubblicava “Una cosa divertente che non farò mai più”;
– Kurt Cobain era morto;
– Lou Reed aveva inciso quattro album in studio e due live con i Velvet Underground, sette album in studio, due live e un best of da solista
Io, invece, a trentacinque anni posso vantarmi di:
– aver raccontato importanti eventi come la “Presentazione Ufficiale della Festa del Tartufo di Campoli Appennino – Anno 2008” per l’edizione di Frosinone de Il Messaggero e di non essere comunque mai diventato un giornalista di professione;
– aver scritto centinaia di racconti che nessun editore ha mai voluto pubblicare;
– avere pubblicato infine un libro (probabile Premio Pulitzer) per raccontare l’esperienza artistica, le vicende, le persone, i luoghi che hanno accompagnato il cantautore Calcutta.
2. VIA ARMANDO VONA – FROSINONE
Passo la maggior parte del mio tempo nella zona industriale di Frosinone, a due passi da uno dei fiumi più democristianamente inquinati d’Italia e a da una discarica che nessuno ha interesse a bonificare.
Qui sono venuto a lavorare cinque anni fa e qui cerco di ritrovare il tempo perduto, durante le pause pranzo, nei parcheggi delle tavole calde e dei centri commerciali.
Qui ho letto “Infinite Jest” e “I detective selvaggi”, anche in questi piazzali ho lavorato al mio probabile Premio Pulitzer “Calcutta. Amatevi in disparte” – mentre l’olezzo degli stabilimenti diveniva, per le mie narici, un gradevole profumo di sottobosco.
Tra i progetti della mia esistenza c’é quello di scrivere in futuro “Wittgenstein in pausa pranzo”, un diario quasi olfattivo, un racconto giorno per giorno della lettura del Tractatus del filosofo austriaco nei piazzali antistanti i self-service.
Lo dedicherò alla commessa di un mobilificio di zona che, notando l’interesse mio e della mia compagna per l’acquisto di una libreria, disse che “no, ormai le librerie non si vendono più, ne abbiamo solo una molto vecchia, sta qui da cinque anni”, per poi proporci una fantastica parete attrezzata.
“No, grazie, cerchiamo una libreria: abbiamo molti libri”
“Ah, ho capito, avete fatto l’università. Anch’io: ho risolto il problema montando delle mensole in garage”
3. OSPEDALE DI SORA (FR)
Ho scritto racconti per quasi trent’anni, inventato storie perlopiù surreali che parlano di fallimenti, fraintendimenti, incontri straordinari, eppure l’occasione di vincere finalmente uno straccio di Pulitzer mi é arrivata solo quando mi sono messo a raccontare una storia vera, arrivata per caso all’orecchio di un editore e talmente strampalata da non sembrare un’opera giornalistica ma l’ennesimo prodotto della mia immaginazione.
Questa storia vera – dalla quale verrà tratto un film diretto da Ferzan Ozpetek nel quale l’eterosessualità non sarà contemplata neanche come possibilità – parla dell’ufficio stampa improvvisato e inefficiente che ha messo a rischio la carriera di uno dei cantautori più celebri di questi anni dieci e mi ha dato l’opportunità di scrivere il libro che desideravo, un documentario testuale che raccontasse non solo un fatto di interesse pubblico (la carriera di Calcutta) ma anche la mia storia e quelle – mai secondarie – dei luoghi e delle persone che hanno orbitato attorno alle nostre esistenze.
Mi ha scritto un amico dopo averlo letto: «grazie per la citazione infra, ma più in generale è stato bello leggere di noi; che questa storia è un pochino di tutti noi».
Aggiungo che questa storia appartiene anche alla mia compagna e a mia figlia: a loro ho dedicato il libro e sottratto attenzione e tempo libero per buttarlo giù.
Mia figlia Caterina da grande vorrebbe diventare un impiegato come il suo papà (“mi piace mettere i timbri”), sa che ho scritto un libro e partecipa a ogni presentazione. Quando sfoglia per la prima volta quel volumetto, cerca una sua foto tra le pagine ma non la trova: é delusa e arrabbiata; le stampo una foto di lei, la incollo sulla prima pagina e le regalo la sua copia personale; é felice, ora; la mostra orgogliosa.
È complicatissimo raccontare storie che riguardano i nostri figli risultando interessanti – per non parlare poi delle banalità delle canzoni, dei libri e degli status di Facebook loro dedicati. Eppure é un legame talmente profondo che nessuno sfugge alla tentazione di raccontare episodi assolutamente ordinari della vita del figlio come se fossero straordinari – si dice che persino un genio come Roberto Bolaño fosse ossessionato dall’amore per la sua prole («La mia unica patria sono i miei figli, Lautaro e Alexandra»), figuriamoci il panettiere dietro l’angolo con fotocamera Zeiss a mille pixel.
Non dovrei annoiare il lettore parlando di te ma, Caterina, «dammi ancora la mano, anche se quello stringerla è solo un pretesto per sentire quella tua fiducia totale che nessuno mi ha dato (o mi ha mai chiesto)» e raggiungiamo Sora dalla zona industriale di Frosinone, percorrendo per intero cinquant’anni di lentezze amministrative, progetti, rinvii, espropri e tentennamenti, la strada statale a due corsie istituita nel 1960, inaugurata nel 1983 e terminata nel 2010 che ci porta con lentezza dalla valle del Sacco a quella del Liri.
Ecco, questo é l’ospedale dove sei nata a poche ore dal ferragosto, in una città a me sconosciuta, con infermieri e medici incatenati dai turni e io, inutile arnese, dal mattino ad attendere il vostro miracolo (tuo e della mamma), colite nervosa, fazzoletti sempre in tasca e via di corsa verso la toilette – uno, due, tre, cinque volte.
Mentre nasci c’è uno scrittore che sta morendo, si chiama Oliver Sacks e quel giorno ha raccontato sul New York Times le sue sensazioni al termine della vita in un articolo bellissimo che leggo mentre ti prepari a venire al mondo e che vorrei regalarti come buon auspicio per quello che verrà.
«Non posso dire di non aver paura ma il mio sentimento prevalente, in questo momento, é la gratitudine: ho amato e sono stato amato; ho avuto molto e dato qualcosa in cambio; ho letto, e viaggiato, e pensato, e scritto; ho avuto un rapporto speciale con il mondo, quello che intercorre tra lettori e scrittori. Soprattutto, sono grato di essere stato un essere senziente su questo splendido pianeta: é stata un’avventura e un enorme privilegio».
4. VIA MAGGIORE GALLIANO – GALLINARO (FR)
La cultura popolare indica nella figura della suocera la reincarnazione di Belzebù, il nemico da tenere a distanza il più possibile; a Gallinaro (FR), invece, una suocera magnanima ha lasciato al genero in eredità addirittura un pontificato.
Raggiungo il piccolissimo centro percorrendo la Strada Statale della Vandra che congiunge Sora a Isernia.
Qui, nel 1947, una bambina ha la prima di una lunga serie di esperienze mistiche, incontri con Gesù, la Madonna, Arcangeli, santi che porteranno alla fondazione della “Nuova Gerusalemme” e alla costruzione della Piccola Culla, edificio sul quale – riporta il sito ufficiale del culto gallinarese – si pronuncia addirittura Cristo: «nel 1975, per volere del Padre, viene eretta la “Piccola Culla del Bambino Gesù”. Della “Piccola Culla” dirà Gesù in una rivelazione del giugno del 1994 resa pubblica: “Questa Culla sarà il Mio Tabernacolo” (Rivelazione di Gesù a Maria G. Norcia, 19/06/1994), preannunciando il significato profondo del Luogo scelto dal Padre».
Il luogo diventa meta di pellegrinaggio e fonte di miracoli e infine, alla morte della mistica nel 2008, la missione divina passa al marito di sua figlia, il quale fonda la nuova “Chiesa Cristiana Universale della Nuova Gerusalemme”, ne viene proclamato pontefice, riceve la scomunica del Vaticano, fa costruire l’arca, la mecca di tutti gli adepti.
Quella dello scisma di Gallinaro é una di quelle storie che mi sarebbe piaciuto indagare e raccontare se avessi avuto il coraggio di diventare un giornalista.
A vent’anni incontrai un cugino di mia madre che esercitava la professione per uno dei due più importanti quotidiani italiani. Mi invitò ad assistere alla chiusura del giornale, mi recai di notte nella redazione e mi spiegò che l’unico modo per fare quel lavoro era trovare una storia, starle alle calcagna per beccare le notizie che altri non hanno, raccontarle in modo semplice e meglio di chiunque altro. Mi consigliò di fare quel lavoro solo nel caso in cui non avessi un desiderio più forte: con ogni probabilità non lo era, o forse non ho mai creduto abbastanza nelle mie capacità. Magari non ne avevo, indagherò.
Di quella sera ricordo che mi accompagnò sul posto un amico sbronzo e che lo abbandonai chiuso nella mia macchina, dormiente: uscendo dal mastodontico edificio sulla Cristoforo Colombo trovai tre prostitute intente a verificare che A. fosse vivo bussando al finestrino della mia vecchia golf parcheggiata.
Mi fermo ad acquistare un souvenir e una cartolina, scherzo con una vecchia che se Dan Brown avesse conosciuto questi luoghi avrebbe scritto il “Codice Gigione”, mi guarda in cagnesco, riprendo la mia marcia scomposta verso Rosignano.
5. CENTRALE NUCLEARE DEL GARIGLIANO – SESSA AURUNCA (CE)
Mentre mi allontano da Gallinaro ricordo una leggenda metropolitana della mia infanzia che raccontava della nascita, nelle vicinanze della centrale nucleare del Garigliano, di un maialino a due teste e di un gallo capace di fare uova.
Guidato dall’istinto e dal navigatore pre-installato sul mio smartphone, viaggio per un’ora tra la Strada Regionale 509 e la Strada Statale 430 per raggiungere quella che un tempo fu la linea Gustav, confine naturale tra Lazio e Campania, territori alleati e occupati, il fiume al centro della transregionale terra dei fuochi.
Poco tempo fa mio zio E. mi ha raccontato che, durante la seconda guerra mondiale, ben due fratelli del mio bisnonno morirono saltando sulle mine nel tentativo di passare le linee attraversando il fiume e che ad uno dei due, lo zio Eugenio, fu data successivamente la colpa di aver messo il piede sulla mina perché ipovedente.
“Quelle degli uomini senza nome sono storie che non godranno mai di immortalità”, dico a Lorenzo De’ Medici che, sulle sponde del fiume, cerca ogni giorno da oltre mezzo millennio il corpo del figlio Piero detto “Il fatuo”, suo erede – inetto al governo – morto in esilio e affogato nel Garigliano.
6. BORGO GRAPPA – MARE DI LATINA
Vivere in provincia é una truffa, ma quando c’è il mare a me pare accettabile persino essere gabbato, poco importa che il mare sia oggi quello di Latina e che Borgo Grappa non sarà mai Saint-Tropez: come Genova per i piemontesi, così Latina, per noi che stiamo in fondo alla campagna, è un lampo giallo al parabrìs.
Sarà il mare, sarà la voglia di qualcosa di buono, la provincia del vicino pare sempre più verde: quando i nostri conterranei raccontano la favola che “la Provincia di Frosinone ha storia e bellezze tali da poter vivere di turismo fino alla fine dei tempi” , il mio amico A. resta in silenzio e poi – quando sono già tutti via – mi confessa che qualsiasi altro posto d’Italia ha visitato in vita sua gli é sembrato ben più carico di storia e bellezza della nostra povera patria.
Quello della provincia è un approccio culturale geograficamente autoreferenziale che da un lato mi permette di considerarmi tra i primi mille stimati intellettuali residenti nel circondario di Frosinone e dall’altro mi deprime e comprime da sempre, un incubo di aspettative irrealizzate e irrealizzabili rivolte verso il passato che si compiva ieri (ad esempio in Toscana per Luciano Bianciardi: «Dalle origini di una città o di una religione si son calcolati gli anni, e dire “originale” significa riconoscere un merito. Insomma pare — e chissà poi per quale ragione — che alla gente importi più del passato, del remoto passato, incapace ormai di far male ad alcuno, che dell’avvenire, del prossimo avvenire, sempre, come ben sappiamo, minaccioso e incombente. Stando così le cose non c’è da stupirsi se anche nella nostra città, piccola città, ma civile e progredita, c’erano sapienti, dotti e intellettuali che ne cercavano alacremente le origini»), si compie oggi (ad esempio in Emilia per Giovanni Lindo Ferretti, «certo le circostanze non sono favorevoli/e quando mai/bisognerebbe/bisognerebbe niente/bisogna quello che è/bisogna il presente») e si compirà assumendo dimensioni sempre più devastanti domani, quando saremo stanchi vecchi appesantiti dalla noia e dall’amarezza di aver visto i nostri figli andar via («l’esistenza spiegata a mia figlia: la vita è piena di sorprese, meraviglie e inaspettate opportunità, però noi abitiamo in provincia di Frosinone»).
Come la signora Waite, come i nostri genitori e i nostri nonni prima di noi, non siamo invitati al compleanno ma ugualmente portiamo in dono una torta che nessuno vuol mangiare.
Certo, devo ammettere che questa è una visione abbastanza ottimistica del futuro che non tiene conto nemmeno del fatto che il tedio a morte del vivere in provincia pare sia identico in tutto il mondo occidentale, in Italia come negli Stati Uniti d’America – scrive, ad esempio, David Foster Wallace ne “Il re pallido”: «A Philo la cultura era qualcosa che dovevi farti a dispetto della scuola, non grazie alla scuola – il che spiega perché tantissimi dei miei compagni delle superiori sono ancora a Philo, a vendersi assicurazioni tra di loro, bere liquori del supermercato, guardare la televisione, aspettare proforma il primo infarto».
Vorrei far pace con la mia provincia da quando sono nato. Pensavo che vi avrei trovato una dimensione da adulto, non è accaduto. Troppi amici persi in battaglia, troppe solitudini. Forse è mancato il mare. Meritavamo di meglio.
Splash.
7. CORSO VITTORIO EMANUELE – ALATRI
La pubblicazione di un libro porta con sé la necessità di promuoverlo – impresa non semplicissima per editoria media e specializzata in un Paese nel quale vengono editi sessantamila volumi l’anno. Ci lavoro con A., il responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice, che mi ascolta, mi aiuta e mi guida.
Copie omaggio del mio “Calcutta. Amatevi in disparte” vengono spedite nelle redazioni di tutta Italia; ne fanno richiesta più giornalisti, anche quelli dei grandi quotidiani nazionali. Ne parlano poco, oppure per niente.
Nonostante tanti anni di gavetta, per la prima volta in vita mia mi autopromuovo imbarazzato sui social media. Ottengo tanti “like”, qualche buon commento, una candidatura per un piccolo premio per libri a tema musicale.
Ufficio stampa, parenti e amici promuovono il libro attraverso internet e si spendono per organizzare eventi in tutta Italia. Ad oggi se ne sono realizzati solo cinque, nessuno a Roma, che poi è la città del mio cuore e quella protagonista del mio racconto. Si adoperano per il successo del mio libro in modo particolare, forse per un buffo cortocircuito dei sentimenti, quelli più lontani nello spazio o negli interessi; da tanti tra i più vicini e quotidiani, invece, non ricevo neanche un commento.
Gira una vecchia battuta che fa più o meno così:
“Che lavoro fai?”
“Il musicista”
“E di lavoro?”
Per i libri va ancor peggio, perché la stragrande maggioranza dei miei coetanei non legge e non ha interesse a mostrarsi colta, tanti considerano la scrittura un’abilità da sviluppare in seconda elementare (“piacerebbe anche a me scrivere ma non ho tempo”) e i sostegni per i tavoli zoppi se li creano su misura con la stampante 3D. Il lavoro intellettuale è talmente svilito che persino i semplici conoscenti mi chiedono copie omaggio del libro; un altro mi dice “preferisco darti quindici euro piuttosto che comprare il libro, così quei soldi li prendi tu e non l’editore, tanto non lo avrei letto” – e poi quei quindici euro non me li dà.
Quando presento il libro nella mia città, però, c’è un mucchio di gente – anche il cantautore Giovane Giovane che, per l’occasione, ha preso il treno e mi ha raggiunto.
V., il titolare della Libreria Cataldi che ho frequentato fin da bambino, vende tutte le copie a disposizione. T. – il presidente dell’Associazione Gottifredo che mi invita a presentare il libro nei suoi locali e al quale mi lega un affetto quasi filiale -, presenta il volume facendo riferimento alla tecnica narrativa “Prendi i soldi e scappa” di Woody Allen, chiedendosi quanto ci sia di vero – e quanto di inventato – nel mio racconto. Gran parte del pubblico rimane stupefatta quando comprende che il mio libro non parla d’amore né dell’India, s’imbarazza quando faccio riferimento ai porno di Sara Tommasi, s’emoziona – forse – quando ritorno ai giorni dell’omicidio Morganti.
“Le circostanze economiche potevano obbligarti a vivere in un ambiente del genere, ma ciò che contava era non farsi contaminare. L’importante era, sempre, ricordare chi eri” mormora di se stesso Frank Wheeler in “Revolutionary Road”. È lo stesso approccio che, a volte in modo poco generoso, ho utilizzato da sempre e con rabbia verso Alatri (FR), il paese di trentamila anime dove sono nato, risiedo e mi sono trovato spesso fuoriluogo.
Il giorno nel quale ho presentato il mio libro nel palazzo più importante di Alatri, proprio di fronte a quello che abitavano i miei nonni, ho capito che io e la mia città forse non ci piaceremo mai a vicenda, probabilmente ci separeremo, non parleremo mai bene l’uno dell’altro ma, in qualche modo, ci vorremo sempre bene.
8. VIA ROMA – VALLECORSA
Della vita in città mi manca la lentezza scassata dei mezzi pubblici, non l’avrei mai detto. Riappropriarmi del tempo perduto in automobile, liberarmi dell’ansia dei tempi da rispettare, leggere in piedi, le cuffie nelle orecchie, ascoltare una canzone o le storie a metà dei compagni di viaggio.
Immaginavo che un giorno anch’io avrei lasciato il cuore incollato al finestrino alle prime luci del mattino, e invece no, lascio volare via imprecazioni contro i mezzi agricoli che percorrono la statale, gli stop non rispettati, i sorpassi azzardati dei marmittoni modificati.
Ho rallentato la guida, inoltre, perché non ho più la capacità di fare diverse cose insieme (l’ho mai avuta?) – in auto da solo e in silenzio 100 km/h, in auto con radio accesa 80 km/h, in auto con radio accesa e un passeggero 60 km/h, in auto con radio accesa e due passeggeri 30 km/h, in auto con radio accesa e tre passeggeri sto fermo in un parcheggio e non butto giù neanche la leva del freno a mano.
Con questa andatura da crociera raggiungo Vallecorsa, sul confine tra il regno pontificio e quello delle due sicilie. Franca, la mia fidanzata, è nata in questo paesino sviluppato in verticale, brutalizzato e distrutto durante la seconda guerra mondiale, palcoscenico de “La ciociara” di Moravia. Qui le persone si conoscono più o meno tutte e a mia figlia Caterina, nonostante la spontanea timidezza, piace che tante persone conoscano il suo nome e la fermino per strada.
L’ultima presentazione del libro – dopo Formia, Frosinone e Grosseto – si era tenuta il 4 gennaio presso la Libreria Universitas di Sora, evento organizzato dell’amico G. che non cesserò mai di ringraziare per avermi introdotto alla passione dello smaltimento dei rifiuti pericolosi. A farmi da spalla, in quell’occasione, c’era M.P., giovanissimo saggista di Vallecorsa conosciuto di sfuggita una settimana prima, autore per Arcana di un volume sui Pink Floyd.
A M. – che due mesi dopo recensirà con affetto il mio “Calcutta” – ricambierò la cortesia facendo da relatore per la presentazione del suo libro ai suoi concittadini. Dei Pink Floyd conosco pochissimo, mia madre ne possiede i vinili degli anni settanta, io ho ascoltato qualcosa qui e lì, i due dischi commercialmente più famosi, ho approfondito le vicende biografiche e musicali di Syd Barrett – personaggio a me più affine per gusto di quanto non lo sia Roger Waters. Però me la cavo, I. (l’altro relatore) è appassionato del genere e M. fa un figurone e mi diverto parecchio – a saperlo prima non mi sarei laureato in Relazioni Internazionali ma in Scienze delle Presentazioni dei Libri degli Altri.
In quell’occasione, nella biblioteca comunale, presentandomi al pubblico dico che sono vallecorsano d’adozione – e un signore si volta ad un altro e dice “Chi cazz’è chist?”. Sette anni prima, appena conosciuta Franca, avevo esordito spiegando che “Io non sono di Alatri, i miei genitori abitano lì” [questo è uno degli episodi della mia biografia, controversi e pieni di spocchia, che spero non arrivino mai alle orecchie di mia figlia].
Ho vissuto assediato dall’ansia e ho avuto dei rapporti difficili con i luoghi per tutta la vita finché non ho amato Franca, e poi Caterina. Da quel momento appartengo a tutte quelle città in cui le mie due ragazze lasciano dei loro pezzi.
9. LA STRADA PER LA TOSCANA
Un libro mi spinge nuovamente verso la Toscana, dopo avermi fatto vagare nel basso Lazio. Dovrò arrivare a Castiglioncello in poco più di un mese, passare da Roma, fare tappa qui e là. La mia famiglia, gli amici, mi raggiungeranno in treno? “Intanto parti”, mi dice il libro. Lo ascolto.
Arrivato al casello autostradale, ricordo una notte d’estate di dodici anni fa quando col mio amico P. decidemmo di accompagnare M. in vacanza a Stia, e di lì à Bagno di Romagna, dove viveva una ragazza della quale M. era follemente innamorato.
Partimmo alle quattro del mattino che M. era uno straccio. Alle quattro e quindici M., ubriaco, si lanciò su P. al volante e lo buttò fuori strada. Incidente, macchina di P. fuori uso, medicazione in ospedale, genitori incazzati.
M. aveva già trent’anni più di noi e, dall’alto della sua esperienza, suggerì di partire lo stesso e di tornare solamente a rabbia genitoriale raffreddata: alle otto del mattino eravamo già tuttettré a Orte con la golf di mio nonno.
Arrivammo a Stia in tarda mattinata, M. conobbe un ragazzo strambo che si offrì di ospitarci per la notte in un casolare di campagna pieno di ragnatele e protetto da tre alani: “sono schizofrenico”, mi disse mentre mi indicava il bagno. “Ah”, risposi io.
V., la ragazza di Bagno di Romagna, invece, era trentacinque anni più giovane di M. Sua madre aveva una trattoria, ci offrì un pasto caldo.
Quando M., la notte seguente, iniziò a tempestare quel ristorante di telefonate per poter parlare con V., la madre minacciò una denuncia ai carabinieri. Oggi lo chiamano stalking.
Tornammo a casa dopo due giorni, senza un soldo e senza aver mai cambiato mutande, calzini, abito.
Sono molto affezionato a M., genio stronzo e strampalato, e al ricordo delle cose assurde che abbiamo fatto insieme. Ricordo che durante quel viaggio si era innamorato di una canzone di Paolo Conte.
Questi sono i primi nove capitoli di un memoir, racconto surreale, diario di un viaggio verso Castiglioncello che mi ha portato in giro per l’Italia Centrale con il peso di un probabile Premio Pulitzer sulle spalle.
“Du côté de chez Solvay” è stato pubblicato a puntate dalla pagina Facebook Castiglioncello Summertime.
L’opera è dedicata a Luca Bellofiore, a Giovane Giovane e a Daniele Groff.