L’epidemia in corso mette in evidenza anche i limiti strutturali del nostro sistema istituzionale ed economico.
Il fatto che lo Stato abbia demandato (ormai da parecchi anni, e con risultati pessimi) parte della gestione della sanità alle Regioni ha costituito una debolezza e contribuito a generare confusione. Al contrario, la cessione di parti della sovranità statale (anche tutta, per quel che mi riguarda) all’Unione Europea avrebbe permesso una gestione più chiara e di più ampio respiro dell’emergenza fin dai primi casi a Wuhan – egoisticamente, poi, in Italia avremmo potuto godere di maggiori risorse e solidarietà umana ed economica fin dai primi focolai. Una banalità: i confini servono solo finché non si diventa il terzo mondo di qualcun altro.
Dal punto di vista della distribuzione del reddito e dell’organizzazione sociale e del lavoro, emergono ancora una volta tutti i limiti brutali del capitalismo. La continua tensione di lotta tra i capitali sembra non permettere un fermo delle attività economiche e produttive del Paese: e in effetti, in mancanza di strumenti di solidarietà sociale, fermare i cicli di produzione vorrebbe dire il collasso di questo sistema economico – dal quale molti individui, tra l’altro, sono ancora esclusi. In sottofondo c’è un continuo invito a fermarsi senza fermarsi, per garantire la salute delle aziende che stritola quella dei lavoratori che non possono rischiare di perdere il lavoro (ché poi questo sistema “Dio-Patria-Famiglia” che vuole chiudere le scuole senza fermare i cicli produttivi non tiene conto delle esigenze dei nuclei familiari nei quali nessuno dei genitori può assentarsi dal lavoro e i nonni sono troppo lontani, o abbastanza vecchi da lavorare ancora, o abbastanza vecchi da non poter badare ai nipoti): aumentato il numero di lavoratori e diminuito quello dei posti di lavoro, la concorrenza è diventata “più grande, innaturale, violenta” ed é divenuta schiacciante la schiavitù dei lavoratori nei confronti del capitale.
Tifiamo rivolta (non violenta).