Ho saputo stamattina della morte di M. Aveva vent’anni più di me, interessi, formazione e punti di riferimento diversi dai miei. Siamo stati colleghi per più di sei anni. Non eravamo veri amici ma avevamo un rapporto di affetto creato dal tempo, da molte chiacchierate e tanta collaborazione. Quando seppe che non avremmo più lavorato insieme era sinceramente dispiaciuto: “abbiamo passato tanti anni qui dentro”, mi disse.
Aveva iniziato a lavorare giovanissimo, era un uomo di fatica. L’ultima volta che ci siamo visti, quasi due mesi fa, aveva parlato con me e con G. dell’idea di andare in pensione e rilevare un bar. Avrebbe voluto gestirlo con i suoi figli. Aveva perso la mamma da pochi giorni, aveva ancora gli occhi gonfi dal lutto – o almeno a me erano sembrati tali.
È morto da solo, il coronavirus lo ha portato via in qualche settimana, senza preavviso, senza che potesse riposarsi dopo tanto lavoro, senza che potesse realizzare i suoi progetti.
Resta un enorme dispiacere e più di qualche domanda irrisolvibile sul passare del tempo, sul caso che governa le nostre vite, sul senso ultimo delle nostre singole e brevi esistenze costrette all’anonimato.