Ieri mi sono preso un pomeriggio libero e ho sfruttato le libertà concesse dalla zona gialla per uscire dal territorio comunale e andare a sedermi con mia figlia su una panchina nella zona alta di Frosinone. Mio nonno aveva abitato poco distante da lì, da bambino, e raccontava che, tornato a casa dalla guerra in Africa, aveva trovato l’edificio nel quale vivevano i suoi genitori e i suoi fratelli ridotto in un cumulo di macerie. Sicuro della morte dei suoi, si rimise in cammino. Incontrò un amico del padre che lo rassicurò: la sua famiglia era viva e sfollata. Questo signore lo tenne con sé per qualche tempo – mancando il grano, impastava il pane con la farina di ghiande: lo mangiavano a pranzo e a cena e, per mandarlo giù, dovevano accompagnare ogni boccone con un bicchiere di vino. Ricordo che una volta, trentʼanni fa, mio nonno portò me e mia sorella a vedere dove lui aveva abitato alla nostra età, in via Moccia. Mi pare anche di ricordare che questa gita durò pochissimo e che ci portò subito via di lì: ripensandoci oggi credo che – distrutta la casa, rimosse le sue macerie – per lui quel luogo non avesse più senso.