Ne Il commesso, romanzo di Bernard Malamud ristampato di recente da Minimum Fax, la Manhattan della grande depressione è crocevia di diversi e reciproci sensi di colpa: quello del malinconico ed umile negoziante ebreo Morris Bober verso la sua famiglia per il tenore di vita che non riesce a garantirle; quello del suo commesso, il ladruncolo Frank Alpine, per aver rapinato Morris e per aver tradito a lungo la sua fiducia; quello della figlia di Morris, Helen, per aver tradito le attese di sua madre con un matrimonio che tarda ad arrivare e cedendo alle lusinghe di un gentile.
Malamud mal sopportava l’etichetta di scrittore ebreo («sono americano, sono ebreo, scrivo per tutti gli uomini», dichiarò in un’intervista a Daniel Stern).
Ha scritto Philip Roth che gli ebrei di Malamud non sono quelli di New York o Chicago ma rappresentano «una sorta di invenzione, una metafora per le possibilità umane» e ne Il commesso, in effetti, l’ebraismo non è una dottrina ma una forma dello spirito: essere ebrei significa «comportarsi bene, essere onesti, essere buoni» – spiega Morris al cattolico Frank – e mangiare prosciutto o non frequentare la sinagoga non lo renderà di certo un cattivo ebreo.
La conversione di Frank Alpine alla religione ebraica dopo la morte di Morris rappresenta la maturazione del commesso: espiate le sue colpe, subite le conseguenze delle sue malefatte e menzogne, egli è pronto per comportarsi bene, essere onesto, essere buono e prendere il posto, dunque, del suo vecchio datore di lavoro.
«Il senso di colpa è nella matrice ebraica», scrive Marco Missiroli nella sua prefazione all’ultima edizione del libro.
Malamud gli risponderebbe che «tutti gli uomini sono ebrei, anche se non lo sanno», come dichiarò a Leslie e Joyce Field nel 1975: ognuno racconta la realtà che conosce meglio ma i sensi di colpa, le emozioni, il dramma e la farsa, il bene e il male, quelli sono universali e lo scrittore americano è stato maestro, con la sua ironia elegante e severa, nel rappresentarli.