C’è un personaggio minore dell’Odissea che mi ha sempre commosso, un compagno di Ulisse chiamato Elpenore. Appare nel poema giusto il tempo di uscirne in modo catastrofico poche sillabe dopo. Liberi dai sortilegi di Circe, i Greci sono finalmente pronti a riprendere il mare. Elpenore viene richiamato mentre dorme dopo i festeggiamenti, smaltendo la sbronza sul tetto di una casa. Si sveglia, ma non ricordandosi dove si era sdraiato, invece di usare la scala precipita dal tetto e muore sul colpo. Splaf – come un fumetto. Hai partecipato alla guerra di Troia, hai seguito Ulisse in tutte le sue traversie, navigando su mari scossi dalla collera del dio del mare in persona, e vai a finire così. Non c’è nemmeno il tempo di piangerlo, il povero Elpenore. Bisogna ripartire prima che quella vecchia pazza di Circe ci ripensi. Elpenore è un grande tocco d’artista di Omero. Perché nessuno più di lui incarna l’umano. Capita agli uomini di uscire all’improvviso dalle loro storie per una momentanea, irrisoria distrazione, una minuscola sfiga. Qualcosa che non c’entra nulla e prevale su tutto il resto. Da quel momento, l’onda d’urto dell’assurdo procede a ritroso investendo tutto il passato, fino al primo giorno.
Emanuele Trevi – Due vite