Wells pubblicò “La macchina del tempo” nel 1895 quando il marxismo e il darwinismo erano due teorie recenti e vitali.
Al principio del romanzo, alcuni tra gli ascoltatori del racconto del viaggiatore del tempo ritengono inevitabile che l’uomo abbia visto nel futuro la realizzazione del comunismo; al contrario, Wells immagina un capitalismo esasperato e insuperabile che si protrae fino all’ottocentomila-e-rotti, quando l’essere umano ha percorso due strade d’involuzione distinte, specializzandosi al punto da dividersi in due specie, in eloj (gli ex padroni che vivono in superficie, ometti graziosi, deboli, frivoli e incapaci di ogni attività manuale o intellettuale) e in morloch (gli ex lavoratori che abitano il sottosuolo, omacci brutti, bruti e amorali che producono per natura quanto serve agli eloj).
Lo scrittore immagina un futuro che pare molto più verosimile oggi di quanto non lo fosse all’epoca della pubblicazione del romanzo: la scomparsa della minaccia dell’affermazione del socialismo ha ingigantito in soli trent’anni la distanza tra i padroni e le classi sociali retrostanti, aumentato l’ossessione per il consumo, la produzione e il lavoro.
Lavoriamo di più e abbiamo meno tempo per noi, ci amiamo di meno e amiamo di meno gli altri: è una propensione al sacrificio e alla sottomissione che viene da lontano – “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, dove Cesare non è più lo Stato – o la comunità – ma l’interesse privato come unica fonte di sopravvivenza.
Quello dell’ipercapitalismo è un sistema che annienta padroni e lavoratori e che, per sostenersi, necessita della promessa di una vita eterna.
Sono certo che Cristo non avrebbe mai immaginato un avvenire del genere, e tuttavia – Gesù! – che pensieri di merda attanaglieranno per l’intera vita noi miscredenti che sopravviviamo e moriamo senza la speranza di un avvenire?