Entrato in libreria, ho subito notato una bella ragazza bionda che armeggiava vicino allo scaffale dove sono sistemati i libri della Adelphi. Allora mi sono avvicinato ed ho preso in mano il primo mattone che ho trovato, le ho chiesto se l’avesse letto, lei ha sorriso e ha detto no. Le ho detto “mi piacciono le edizioni Adelphi”, lei mi ha risposto “sì, fa molto radical-chic, ed è bello essere radical-chic ora che non va più di moda”. Abbiamo riso.
Dopo qualche mese devo lasciare Roma per qualche giorno in direzione Terracina, giusto per prendere un po’ di abbronzatura. La bionda, diventata poi la mia fidanzata, mi chiede se quel mattone resterà a prendere polvere sul comodino per sempre. “No”, le rispondo, “lo leggerò in spiaggia”.
Ciò che colpisce dal principio de La famiglia Karnowski è che ha atteso settant’anni prima di essere pubblicato in Italia e che il suo autore, I.J. Singer, è il fratello maggiore e per nulla celebre (se non agli addetti ai lavori, immagino) del premio nobel Isaac Singer.
Il romanzo sembra non risentire del tempo, lo si capisce fin dalle prime pagine che scorrono veloci e ti portano d’un fiato alla fine (tre giorni di spiaggia sono sufficienti per completare la lettura). La storia di tre generazioni di una famiglia ebraica che si snoda attraverso i primi quarant’anni del Novecento (gli stessi pochi anni vissuti dall’autore, morirà giusto l’anno dopo la pubblicazione) in Polonia, nella Germania di Weimar e in quella di Hitler, negli Stati Uniti.
Quella raccontata da Singer, però, non è solamente la storia di una famiglia, e neanche l’apologia di un popolo, quello ebraico, tormentato; ma piuttosto, e soprattutto, una grande commedia umana dove trovano spazio figure tra loro totalmente differenti, tese ad incontrarsi e scontrarsi con le reciproche identità culturali, con i tormenti dell’amore e dell’odio e, non ultimo, con un mondo che pare così lontano ma che sembra anche così “presente” al lettore contemporaneo (o, quantomeno, a me che scrivo).
“Venti euro in meno nel portafogli, ne valeva la pena?”, mi chiede, terminato il libro, la mia fidanzata. “Sicuramente”, le rispondo, inerpicandomi in un discorso su come gli autori ebraici, da Allen a Roth, abbiano una capacità di autoironia e di analisi impudica dei fatti umani vietata a noialtri e, probabilmente, dovuta ad una matrice culturale incentrata sulla vita piuttosto che sull’aldilà, credendo così, con questa supercazzola, di mostrarmi ai suoi occhi molto dotto.
Annoiata mi interrompe, mi domanda “sì, ma ti è piaciuto?”, allora le spiego che, sì, mi ha inquietato parecchio perché le vicende umane sembrano tutte così simili tra loro e che un turbamento del genere può provocarlo solo un grande romanzo.
“Dunque ne è valsa la pena”, dice. Io le dico “sì, anche perché forse è grazie a questo mattone che oggi ho te”. Sorride. Era la risposta che voleva.
Pubblicato da Il Mucchio Selvaggio on-line il 5 settembre 2013