Il 26 settembre del 1960 milioni di americani poterono assistere per la prima volta, attraverso i loro piccoli schermi in bianco e nero, a un dibattito tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Stando ai sondaggi dell’epoca, Kennedy risultò vincitore della sfida per la maggior parte degli spettatori televisivi, Nixon per la maggioranza degli ascoltatori della radio: fu quello il momento di rottura tra l’epoca pre-televisiva e quella contemporanea, e la successiva vittoria elettorale di Kennedy sarà la conferma, per gli osservatori più attenti, del peso sempre maggiore che l’apparenza assumerà per la società.
Potrebbe esserci proprio il duello Kennedy – Nixon tra le ispirazioni di “Oltre il giardino”, scritto da Jerzy Kosinski appena dieci anni dopo, o magari lo scrittore potrebbe aver messo a frutto gli stimoli del suo occhio cinico da polacco immigrato che lo porterà a dire, in un’intervista al mensile inglese “Third Way” del febbraio 1981, “avrei potuto essere ritardato ma loro mi avrebbero trattato allo stesso identico modo”, volendo sottolineare l’attenzione americana alle apparenze.
Kosinski in questo suo romanzo breve (rivisitato in un meraviglioso film di cui lo stesso scrittore curò la sceneggiatura) racconta, con i toni della farsa – o del dramma, a seconda dei punti di vista –, il dominio dell’immagine nella società contemporanea, quella potenza dell’esteriorità che ha portato anche il nostro Paese a conseguenze che si possono definire grottesche almeno quanto l’ascesa politica del protagonista della vicenda, Chance il giardiniere.
Chance è un uomo senza passato, analfabeta ed asessuale, le cui uniche conoscenze sono legate al giardino che ha curato per tutta la vita e alla televisione cui assiste incessantemente, assorbendone le immagini e i comportamenti senza alcun filtro né capacità di reinterpretazione.
Costretto ad abbandonare il suo giardino (“tutto, […] fuori dal cancello somigliava a quello che aveva visto alla tv […] aveva l’impressione di aver già visto tutto”), Chance si ritrova in una serie di equivoci provocati dal suo bell’aspetto e dai vestiti all’ultima moda ereditati dal suo vecchio datore di lavoro che lo fanno apparire come “uno degli uomini d’affari più eleganti”, ne fanno fraintendere qualsiasi comportamento od affermazione e persino le generalità (“«Io sono Chance», balbettò e, non sembrandogli questo abbastanza, aggiunse «il giardiniere». «Chauncey Gardiner», ripeté lei […] «Io e mio marito siamo vecchi amici di Basil e Perdita Gardiner […] è per caso un loro parente, signor Gardiner?»”).
Chance si limita ad esserci (“mi piace guardare”) e ad essere interpretato (“virile; raffinato; bella voce; una specie di incrocio fra Ted Kennedy e Cary Grant”): da spettatore del mondo ne diviene protagonista inconsapevole (“uomini come Gardiner decidono ogni giorno la sorte di milioni di persone!” esclama ad un certo punto l’ambasciatore sovietico).
“Oltre il giardino” rappresenta quasi un unicum in quello spazio dove si incrociano letteratura e cinematografia, uno di quei pochi casi nei quali sarebbe veramente un peccato affermare “non leggo il libro, ho visto il film” e, allo stesso identico modo, sarebbe un delitto non vedere il film dopo aver letto il libro.
Pubblicato da Il Mucchio Selvaggio on-line il 13 giugno 2014