C’è un libro che può far del bene, ed è ambientato attorno al laghetto del paesino di Buštěhrad, in Boemia. Quando quel libro che può far del bene viene pubblicato in Cecoslovacchia è il 1971 e il suo autore, Ota Pavel, giornalista sportivo e scrittore, ha 41 anni e sta tirando le fila di una vita più che complicata, nella quale ha già affrontato un conflitto mondiale, l’occupazione nazista della sua terra, le discriminazioni contro gli ebrei, la deportazione della sua famiglia a Mathausen, l’avvento del comunismo, nuove discriminazioni contro gli ebrei, un disordine mentale manifestatosi improvvisamente durante le olimpiadi di Innsbruck del 1964, continui ricoveri in cliniche psichiatriche. Il libro che può far del bene s’intitola «La morte dei caprioli belli» (Keller, 2013) e ricostruisce velocissimo, in solo un centinaio di pagine e con un’ironia e una leggerezza d’animo e di penna che fanno ridere e piangere allo stesso tempo, le vicende dell’infanzia e della gioventù dell’autore in quei contesti tragici, la figura granitica della madre e – soprattutto – quella, opposta, inaffidabile e maldestra, del padre. Pavel risolve qui, in modo per me disarmante, secoli di tensioni nei rapporti tra gli esseri umani, e lo fa nell’allegria dell’attimo; nell’accoglienza dei reciproci difetti; nella contrapposizione tra le risposte avventate, gli entusiasmi improvvidi e le iniziative inette del padre e la dolcezza e la protezione dello sguardo del figlio; nella leggerezza che dovrebbe essere propria dell’amore – quell’amore che, in fin dei conti, dovrebbe saper far sempre del bene con quel che ha a disposizione, proprio come fa questo libro.