Le sale d’attesa dei grandi ospedali sono dei luoghi meravigliosi per leggere. Provare per credere.
Ritiro il tagliandino ammazzacode – ci vorrà parecchio tempo -, mi accomodo, tiro fuori dal giaccone un volumetto tascabile che mi è stato regalato a Natale e che questa mattina, chissà perché, ho deciso di portare con me.
Le informazioni preliminari su tale libretto e sull’autore le intuisco dall’immagine sul fronte (Renato Guttuso, I funerali di Togliatti). La quarta di copertina, invece, mi spiega come questa sia una nuova edizione, rivista dall’autore (Luca Canali, classe 1925, tra i maggiori latinisti italiani), di un romanzo autobiografico uscito nel 1984.
Se da un approccio superficiale l’”Autobiografia di un baro” non lascia ben sperare (noia e nosocomi, poi, sono un binomio più distruttivo di qualsiasi malattia), bastano le prime tre pagine per essere travolti dall’intensità della scrittura dell’autore e della sua esistenza da “truffatore”: dirigente di sezione comunista ma “animale impolitico quanti altri mai” radiato dal partito dopo i fatti d’Ungheria; professore universitario ma “ancora lì a barare, conoscevo poco e male le lingue, lasciavo cadere in disuso il greco, mi atteggiavo a tutore della filologia classica”; bramoso nella sessualità ma impotente di fronte all’amore e spesso a disagio con i sentimenti di figlio, amante, marito, padre.
Il libro è composto da ventiquattro capitoli più un’appendice scritta dalla moglie di Canali: ventiquattro racconti che attraverso i ritratti e le storie dei “personaggi” incontrati dall’autore nel corso degli anni finiscono per disegnare la vicenda di un uomo forse troppo severo con se stesso.
Nessuno può valutare quanto il giudizio negativo di Canali sulla propria esperienza umana sia una forma di autolesionismo legata alla grave depressione e alle nevrosi che l’hanno accompagnato per larga parte della sua vita (approssimativamente e grossolanamente, seguendo i racconti nel libro, dall’espulsione dal PCI in poi).
Mi sento di poter dire, però, che le vite raccontate dallo scrittore mi hanno coinvolto fino a farmi accantonare dopo pochi minuti l’ipocondria che mi aveva condotto in quell’affollata sala d’attesa di un grande ospedale, tanto da controllare se fosse il mio turno solamente durante alcuni fisiologici cali d’attenzione (uno, momentaneo ma terribile, sulla “Lettera al compagno di banco”).
Terminata la lettura, il mio turno era ancora di là da venire. Allora ho barato anch’io: ho sfilato di mano il tagliandino ammazzacode ad un’adorabile vecchina assopita al mio fianco e sono andato incontro alle mie periodiche analisi del sangue.
Pubblicato da Il Mucchio Selvaggio on-line il 24 febbraio 2014