La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.
Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale. Alla sala del cinema, ora per ora, cresceva la fila delle bare sotto il palcoscenico, ciascuna con sopra l’elmetto di materia plastica, e in fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le parti d’Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino e la pipetta, critici d’arte, sindacalisti, monsignor vescovo, un paio di ministri che però furono buttati fuori in malo modo.
Venne il povero Di Vittorio a raccomandare la calma e la moderazione. Non venne la celere e anche i carabinieri del servizio d’ordine si tennero accosto al cancello della direzione. Ai funerali ci saranno state cinquantamila persone, tutte in fila con le bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la mitra e il pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati.
Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.
Nella bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle vittime il ministero offriva contribuzioni straordinarie e immediate varianti dalle 60 alle 100 mila lire, oltre il normale trattamento previdenziale previsto dall’Inail. La direzione offriva assegni assistenziali di 500 mila lire e di un milione, secondo i relativi carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una ventina di milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la miniera.
Luciano Bianciardi, «La vita agra»